I lavoratori con minore retribuzione, o con periodi di contribuzione discontinui e limitati e quelli che fanno una brillante carriera rischiano di più. E così sbagliano molti giovani quando attendono tanto per attivare il programma di accumulo
Ci sono due categorie di lavoratori che con il sistema contributivo rischiano di ricevere una pensione insoddisfacente, sebbene per motivi opposti: i lavoratori con bassa retribuzione, o con periodi di contribuzione discontinui e limitati, e i lavoratori che fanno una brillante camera. I primi rischiano perché l’assegno che riceveranno, frutto di contributi ridotti e frammentati, potrebbe rivelarsi molto basso in termini assoluti, anche se non lo è il tasso di sostituzione, il rapporto tra la pensione e l’ultima retribuzione, non si invecchia bene con il 75% di 1.200 euro.
I secondi perché i contributi più leggeri versati nella prima fase lavorativa “pesano” di più dei contributi più elevati versati successivamente e il risultato finale è un tasso di sostituzione più basso. Per entrambi, l’unico rimedio è risparmiare per integrare la pensione pubblica, esercizio più facile per chi può contare su stipendi o redditi più alti, quasi impraticabile, se non a prezzo di grandi sacrifici, per chi ha, appunto, il problema di avere un lavoro malpagato o saltuario. Per tutti, il consiglio è di cominciare quanto prima possibile, per chi aderisce a una forma di previdenza complementare il tempo gioca a favore anche sotto l’aspetto fiscale: le rendite, per la quota parte corrispondente ai contributi versati e dedotti dal reddito, sono tassate con un’aliquota del 15%, che si riduce dello 0,3% per ogni anno di contribuzione successivo al quindicesimo, fino a un minimo del 9%.
Cominciare per tempo, quindi, ma occorre anche tenere a mente qualcosa che i risparmiatori non amano sentirsi dire, e che chi propone prodotti e servizio di investimenti solitamente si guarda bene dal sottolineare, ovvero che per accumulare un capitale bisogna essenzialmente mettere da parte soldi, risparmiare tanto, senza confidare in rendimenti mirabolanti o in ricette miracolose. Nel processo di accumulazione previdenziale, l’ideale sarebbe invertire l’approccio tradizionale, ossia partire dalla fine, determinare la somma necessaria a integrare la pensione pubblica, per poi calcolare, in base al tempo a disposizione, l’importo da accantonare ogni mese o ogni anno.
E il rendimento? Si investe principalmente per preservare i risparmi dall’inflazione e per agevolare il processo di accumulazione, ma non si può mettere a repentaglio l’obiettivo finale inseguendo performance elevate, ma anche più rischiose, il rendimento non può fare il “lavoro” del risparmio. Per accumulare 100 mila euro, investendo 100 euro al mese al tasso dell’1% annuo, non bastano 20 anni, si arriva “solo” a 26.556 euro, e nemmeno 30 di anni bastano, il capitale accumulato sfiora i 42 mila euro. Con un rendimento più elevato, il 3% invece dell’ 1%, il capitale cresce, rispettivamente, a 32.830 euro e 58.274 euro, una discreta differenza, ma non basta. Però, se invece di provare a triplicare il rendimento, e di conseguenza assumere maggiori rischi, si aumenta anche solo del 50% l’importo risparmiato mensilmente, ossia si investono 150 euro all’1%, si ottiene un risultato migliore: quasi 40mila euro al termine di 20 anni e quasi 63 mila euro dopo 30; con 200 euro al mese e con cinque anni di versamenti in più, si arriva all’obiettivo dei 100 mila euro.
Una prima considerazione: in un paese in cui si accede tardi al mondo del lavoro “in regola” e dai bassi stipendi, veramente non si comprende perché i lavoratori dipendenti più giovani non pensino alla previdenza complementare o lo facciano aderendo in forma individuale a fondi pensione aperti e Pip (piani individuali pensionistici), ovvero che rinuncino al contributo del datore di lavoro (i 100 euro al mese che diventano 200) che non costa loro nulla. La seconda considerazione riguarda i rendimenti. L’uno o il tre per cento possono apparire troppo bassi, ma, trattandosi di un’accumulazione di durata pluridecennale, sono da considerare tassi reali, espressi cioè al netto dell’inflazione, un rendimento “nominale” non consentirebbe di paragonare i 100 euro di oggi con 42 mila euro del 2016. E rendimenti reali dell’1% o del 3% sono tutt’altro che trascurabili.
Nel periodo 2004-2015, la media dei rendimenti reali annui dei comparti obbligazionari dei fondi pensione negoziali è stata pari appena allo 0,11%, quella degli obbligazionari misti arriva al 2,3%, mentre per i comparti azionari si sfiora il 3,7%, ma con oscillazioni annue che vanno da -27% a +15%. Si tratta, per di più, di rendimenti lordi, che non tengono conto, cioè, dei costi e della tassazione, nella previdenza complementare l’aliquota applicata sui rendimenti è il 20%, un ulteriore vantaggio. In tema di costi, i risparmiatori non sembrano dedicare loro la stessa attenzione che rivolgono all’aspetto “performance”.
I fondi negoziali sono di gran lunga meno cari dei fondi pensione aperti e dei Pip che però sono la forma previdenziale che conta il maggior numero di adesioni. Non è un aspetto marginale: come viene ricordato dalla Covip, l’organismo di vigilanza sui fondi pensione, il maggior costo medio di fondi pensione aperti e Pip si traduce, a parità di rendimenti lordi su un orizzonte temporale di 35 anni, in una prestazione finale più bassa, rispettivamente, del 17% e del 23%.